
Ho due grandi passioni: i libri e la cucina.
Da quando una letteratura esiste, vale a dire da quando dei libri vengono scritti, la cucina ma più in generale il cibo e il mangiare sono alcuni dei temi più esplorati dagli scrittori.
Dalla “Cena Trimalchionis” ai libri più moderni la cucina diventa un elemento di narrazione. La grande letteratura, attraverso il cibo, crea quelle situazioni che permettono delle profonde riflessioni sociali.
Senza andare troppo lontano il cibo è una delle parti fondanti della natura umana, è il suo sostentamento e quindi molto dice e molto fa capire di questa.
Proprio perché così universalmente condivisa è da sempre stata utilizzata per connotare personaggi, situazioni e storie stesse.
Così nella già citata “Cena Trimalchionis” la descrizione della cena stessa diventa narrazione di un comportamento ridicolo e stereotipato dell’arricchito villano e maleducato che compra letteralmente la sua presenza nell’alta società.
Presenza e non presenza nell’alta società sono il senso centrale anche delle cene e dei banchetti descritti nel “Giocatore” di Dostoevskij in cui addirittura il protagonista, per il suo rango, non può sedersi al tavolo degli appartenenti all’alta società di quel periodo.
Dostoevskij, per esempio, usa molto i il cibo per descrivere personaggi situazioni nella maniera più efficace possibile, dai pasti estremamente frugali di Raskolnikov in “Delitto e castigo”, ai banchetti sfrenati di Ivan nella sua fuga d’amore con Grusenka nei “Fratelli Karamazov”.
D’altro canto George Orwell in “1984” usa la descrizione del cibo scadente, disgustoso e costosissimo per raccontare il senso di costrizione che il regime impone alla popolazione, non è un caso che le prime cose che Julia e Winston fanno insieme, non appena comprendono di essere soli nella loro libertà, sia mangiare prodotti “buoni” reperiti al mercato nero e fare l’amore.
In sostanza il cibo è l’elemento che senza dubbio meglio descrive ed esemplifica la natura e la condizione umana e questo non poteva sfuggire ai grandi scrittori.
Nello stesso momento, o meglio parallelamente all’uso che la grande letteratura fa del cibo, nasce e fiorisce una letteratura diversa che però in fondo parla esattamente della stessa cosa: nell’Ottocento in tutta Europa cominciano a vedere la luce scritti che raccolgono, attraverso la scientifica compilazione di ricette tradizionali, quella che è la cultura culinaria delle nascenti nazioni europee, e forse, in Italia ne abbiamo uno degli esempi più memorabili “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Peregrino Artusi. è il 1891 e alle stampe, Peregrino Artusi di Firenze, critico letterario, gastronomo ma soprattutto buongustaio dà un ricettario che spazia attraverso tutto il territorio italiano.
Il libro è straordinario, leggendolo capiamo la strada che le ricette hanno fatto per arrivare fino a noi; proprio quelle ricette che utilizziamo e che mangiamo almeno una volta a settimana.
Il piglio è o vuole essere quello del manuale etnografico, un volume da biblioteca nazionale, ma a tratti l’Artusi sembra essere più un frequentatore di osterie e tavole imbandite che di cattedre e aule universitarie, ma d’altronde di fronte a tanta ricchezza culinaria come dargli torto?
“principii o antipasto sono propriamente quelle casette appetitose che s’imbandiscono per mangiarle o dopo la minestra, come si usa in toscana, cosa che mi sembra più ragionevole, o prima, come si pratica in altre parti d’Italia”.
Il cibo è cultura, non mi stancherò mai di scriverlo, uno chef deve rendersi conto di quanto sia importante leggere non solo i manuali e ricettari moderni, ma anche e soprattutto tutti quei testi (e sono davvero tantissimi) in cui il cibo diventa il mezzo attraverso il quale si articolano le storie e le avventure dei protagonisti.
La storia del cibo non finirà, finché qualcuno mangerà qualcosa, fino a che qualcuno la cucinerà, fino al momento che qualcuno ne prenderà una nota scritta.
Ora vado a mangiare! Buon appetito!
Alla prossima, Fabio
